racconti...

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  1. *marica*
     
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    L'UOMO CHE NON CREDEVA NELL'AMORE... image

    Voglio raccontarvi una storia molto antica su un uomo che non credeva nell'amore.
    Si trattava di un uomo comune, proprio come voi e me, ma ciò che lo rendeva speciale era il suo modo di pensare: era convinto che L'AMORE NON
    ESISTESSE. Naturalmente l'aveva cercato a lungo, aveva osservato le persone intorno a sè, trascorrendo gran parte della vita in cerca d'amore, solo per scoprire che l'amore non esisteva.

    Dovunque andasse, diceva a tutti che l'amore è soltanto un invenzione dei poeti e delle religioni, usata per manipolare la debole mente umana, per controllare le persone. Diceva che l'amore non è reale, e per questo è impossibile trovarlo quando lo si cerca.

    Era un uomo molto intelligente e riusciva ad essere convincente. Lesse una quantità di libri, frequentò le migliori università e diventò un rinomato studioso. Poteva parlare dovunque, davanti a qualunque pubblico, e la sua logica era inoppugnabile. Diceva che l'amore è come una droga: ti fa sentire bene, ma crea una dipendenza.
    E cosa succede se una persona diventa dipendente dall'amore, e poi non riceve la sua dose quotidiana?
    Quell'uomo diceva che la maggior parte dei rapporti d'amore è come il rapporto che c'è tra un tossicodipendente e il suo spacciatore.
    Quello dei due che ha il bisogno maggiore è il drogato, e l'altro assume il ruolo dello spacciatore.
    Quest'ultimo è quello che controlla il rapporto.
    E' una dinamica facilmente osservabile, perchè in ogni relazione di solito c'è uno che ama di più e un altro che si limita a ricevere, ad approfittare di chi gli ha donato il suo cuore. E' facile vedere come si manipolano a vicenda, tramite le loro azioni e reazioni, proprio come un drogato e uno spacciatore.
    Il tossicodipendente, quello che ha il bisogno maggiore, vive con il timore costante di non ricevere la prossima dose di amore. Pensa: "Cosa far se mi lascia?" E tale paura lo rende possessivo.
    Diventa geloso ed esigente. Lo spacciatore comunque può sempre manipolarlo, dandogli dosi maggiori o minori, oppure negandogliele del tutto.
    La persona con il bisogno maggiore si arrende ed accetta di fare qualunque cosa pur di non essere abbandonata.

    L'uomo della nostra storia continuava a spiegare a tutti perchè l'amore non esiste.
    "Ciò che gli uomini chiamano amore è solo una relazione basata sul controllo e sulla paura. Dov'è il rispetto? Dov'è l'amore che dichiariamo di provare? Non esiste."
    Le giovani coppie davanti a un simulacro di Dio, e davanti alle loro famiglie e agli amici, si scambiano una quantità di promesse: di vivere insieme per sempre, di amarsi e rispettarsi l'un l'altro, di restare uniti nella salute e nella malattia. Promettono di amare e onorare l'altro. Promesse e ancora promesse.
    La cosa stupefacente è che credono davvero ci che promettono. Ma dopo il matrimonio, dopo una settimana, un mese o alcuni mesi, le promesse vengono infrante una dopo l'altra.
    "Scoppia una guerra di potere, di manipolazione, per stabilire chi è il drogato e chi lo spacciatore. Pochi mesi dopo le nozze, il rispetto che avevano giurato di mantenere l'uno per l'altra è scomparso.
    Resta il risentimento, il veleno, il modo in cui si fanno male a vicenda, finchè ad un certo punto, senza che se ne rendano conto, l'amore finisce.
    I due restano insieme perchè hanno paura di restare soli, temono i giudizi degli altri e anche i propri. Ma dov'è l'amore?

    Quell'uomo sosteneva di conoscere molte coppie anziane che avevano vissuto insieme per trenta o quarant'anni, e ne erano molto fiere.
    Ma quando parlavano del loro rapporto, dicevano: "Siamo sopravvissuti al matrimonio". Ciò significava che uno dei due a un certo punto si era arreso all'altro. La persona con la volontà più forte aveva vinto la guerra. Ma dov'era la fiamma che chiamavano amore? Si trattavano come una proprietà l'uno dell'altro. "Lui è mio". "Lei è mia".



    L'uomo spiegava senza fine tutte le ragioni per cui non credeva nell'esistenza dell'amore, e diceva : "Io ho già vissuto situazioni del genere e non permettero’ più a nessuno di manipolare la mia mente, di controllare la mia vita, in nome dell'amore."
    Le sue argomentazioni erano logiche e convincevano molte persone. L'AMORE NON ESISTE.

    Poi un giorno, mentre quell'uomo camminava in un parco, vide una bella donna in lacrime seduta su una panchina. Si incuriosce e avvicinatosi le chiese se poteva aiutarla. Potete immaginare la sua sorpresa quando lei rispose che piangeva perché aveva scoperto che l'amore non esiste. L'uomo disse: "Stupefacente. Una donna che non crede nell'esistenza dell'amore". Naturalmente volle subito sapere qualcosa di più. "Perchè dici che l'amore non esiste?" chiese. "E' una lunga storia" rispose lei "Mi sono sposata molto giovane, piena di amore e di illusioni. Credevo che avrei condiviso tutta la vita con mio marito.Ci giurammo reciprocamente fedeltà e rispetto, e creammo una famiglia. Ma presto tutto cambio’. Io ero la moglie devota che si occupava della casa e dei bambini. Mio marito continuò a seguire la sua carriera. Il suo successo e la sua immagine esteriore per lui erano più importanti della famiglia. Smise di rispettarmi, e io smisi di rispettare lui. Ci facemmo del male a vicenda e un giorno scoprii che non lo amavo più e che neppure lui mi amava. "Ma i bambini avevano bisogno di un padre e quella fu la scusa che adottai per non lasciarlo, facendo anzi di tutto per sostenerlo. Ora i bambini sono diventati adulti e se ne sono andati. Non ho più scuse per restare con lui. Tra noi non c'è rispetto, nè gentilezza. So che anche se trovassi un altro sarebbe la stessa cosa, perchè l'amore non esiste. Non ha senso cercare ci che non esiste e per questo piango."
    L'uomo la comprendeva benissimo. L'abbracciò e disse :"Hai ragione, l'amore non esiste. Lo cerchiamo, apriamo il nostro cuore, ci rendiamo vulnerabili e troviamo solo egoismo. Questo ci fa del male anche quando pensiamo di esserne usciti indenni. Non importa quante volte ci proviamo, accade sempre la stessa cosa. Perchè allora continuare a cercare l'amore?"

    Erano così simili, che diventarono grandi amici. Il loro era un rapporto meraviglioso. Si rispettavano e nessuno dei d=ue cercava di prevalere sull'altro. Ogni passo che facevano insieme li rendeva felici. Tra loro non c'era invidia nè gelosia, non c'era controllo nè possesso. La relazione continuava a crescere . Amavano stare insieme, perchè si divertivano molto. Quando erano soli ciascuno sentiva la mancanza dell'altro.
    Un giorno, mentre l'uomo era fuori città, gli venne un'idea assurda.."Forse ci che sento per lei è amore" , pensò. "Ma è così diverso da ci che ho provato in passato. Non è ciò che dicono i poeti, o la religione, perchè io non mi sento responsabile per lei. Non le chiedo nulla, non ho bisogno che si occupi di me. Non sento la necessità di incolparla dei miei problemi. Insieme stiamo bene e ci divertiamo. Io rispetto il suo modo di pensare e lei non mi mette mai in imbarazzo. Non mi sento geloso quando è con altri e non invidio i suoi successi. Forse l'amore esiste davvero, alla fine, ma non è ci che tutti credono che sia." Non vedeva l'ora di tornare a casa e parlare con la donna, per raccontarle dei suoi strani pensieri. Appena cominciarono a parlare, lei disse:"So esattamente a cosa ti riferisci. Io ho avuto la stessa idea tempo fa, ma non volevo parlartene perché so che non credi nell'amore. Forse dopotutto l'amore esiste, ma non è ciò che pensavamo che fosse." I due decisero di diventare amanti e di vivere insieme, e sorprendentemente le cose tra loro non cambiarono.
    Continuavano a rispettarsi e a sostenersi, e l'amore cresceva sempre di più. Anche le cose più semplici li facevano gioa, perchè si amavano ed erano felici.




    Il cuore dell'uomo era così pieno di amore che una notte accadde un grande miracolo. Era intento a guardare le stelle, e ne vide una bellissima. Il suo amore era così forte che la stella scese dal cielo e finì nelle sue mani. Quindi accadde un altro miracolo e la sua anima si fuse con la stella.. La sua felicità era intensa, e andò subito dalla donna per mettere la stella nelle sue mani. Non appena lo fece, lei ebbe un momento di dubbio: quell'amore era troppo forte. Non appena quel pensiero le attraversò la mente, la stella le cadde di mano e si ruppe in un milione di pezzi.
    Ora c'è un vecchio che gira per il mondo giurando che l'amore non esiste. E in una casa c'è una donna anziana che aspetta un uomo, versando lacrime amare per il paradiso che aveva tenuto tra le mani, perdendolo in un momento di dubbio.

    Questa è la storia dell'uomo che non credeva nell'amore. Di chi fu l'errore? Cosa non funzionò? Fu l'uomo a sbagliare, pensando di poter dare alla donna la sua felicità. La sua felicità era la stella e l'errore fu quello di mettere la stella nelle mani della donna. La felicità non viene mai da di fuori. L'uomo era felice per tutto l'amore che proveniva da se stesso. La donna era felice per tutto l'amore che proveniva da lei. Ma appena lui la rese responsabile della propria felicità, lei ruppe la stella, perchè poteva farsi carico della felicità di un altro essere. Indipendentemente da quanto lo amasse, non avrebbe potuto renderlo felice, perchè non poteva sapere ciò che lui aveva in mente, non poteva conoscere le sue aspettative, i suoi sogni.

    Se prendete la vostra felicità e la mettete nelle mani di un'altra persona, prima o poi quella persona la distruggerà. Se la felicità invece vive dentro di voi, siete voi ad esserne responsabili. Non possiamo rendere nessuno responsabile della nostra felicità, ma quando andiamo in chiesa e ci sposiamo, la prima cosa che facciamo è quella di scambiarci gli anelli. Mettiamo la nostra stella nelle mani dell'altro, sperando che ci renda felici e che noi renderemo felici lui, o lei.
    Ma indipendentemente da quanto amate un'altra persona, non sarete mai còi che quella persona vuole che siate. Questo è l'errore che quasi tutti facciamo fin dall'inizio. Basiamo la nostra felicità sul partner. Trovate la vostra stella e tenetela nel cuore.sarà la sua luce a trasmettere l'amore. perchè L'AMORE ESISTE!
     
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  2. *marica*
     
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    L'ECLISSI....


    Avevo aperto le porte del cuore per la seconda volta....
    ...lui è rimasto fermo sulla soglia a guardare....per un lungo tempo....
    ....ma poi prese coraggio ed entrò
    (questo è ci che vedevo io)


    Avevo aperto le porte del cuore
    è stato terribilmente difficile togliere tutti i catenacci ma l'ho fatto: uno alla volta lentamente.....con titubanza
    .....l'irruzione è stata inevitabile ma non mi sono difesa perchè dopo essere stata reclusa per molto tempo....la luce del giorno mi faceva respirare....
    ....ma è durato un breve attimo....
    mi sono lasciata prendere dall'illusione
    dalla speranza...ero ubriaca di ciò che mi offriva...
    ...e questo è stato fatale, per l'ennesima volta....
    ....ha preso tutto ciò che mi apparteneva...
    si è cibato della mia forza, della mia vitalità, del mio essere...
    si è dissetato fino all' ultima goccia del mio sangue.....
    ....andandosene senza nemmeno chiudere la porta.

    ed ora.....
    c'è......l'ECLISSE.
     
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  3. *marica*
     
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    DANZA LENTA..



    Hai mai guardato i bambini in un girotondo?
    O ascoltato il rumore della pioggia quando cade a terra?
    O seguito mai lo svolazzare irregolare di una farfalla?> O
    osservato il sole allo svanire della notte?

    Faresti meglio a rallentare.
    Non danzare così veloce.
    Il tempo è breve.
    La musica non durerà.

    Percorri ogni giorno in volo?
    Quando dici "Come stai?" ascolti la risposta?
    Quando la giornata è finita ti stendi sul tuo letto con centinaia
    di questioni successive che ti passano per la testa?

    Faresti meglio a rallentare.
    Non danzare così veloce
    Il tempo è breve.
    La musica non durerà.

    Hai mai detto a tuo figlio,
    "Lo faremo domani?" senza notare nella fretta, il suo dispiacere?
    Mai perso il contatto, con una buona amicizia che poi finita
    perché tu non avevi mai avuto tempo di chiamare e dire "Ciao"?

    Faresti meglio a rallentare.
    Non danzare così veloce
    Il tempo è breve.
    La musica non durerà.

    Quando corri cosi veloce per giungere da qualche parte ti perdi la
    metà del piacere di andarci.
    Quando ti preoccupi e corri tutto il giorno, come un regalo mai
    aperto . . . gettato via.

    La vita non è una corsa.
    Prendila piano.
    Ascolta la musica.
     
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  4. *marica*
     
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    IL FUTURO E' NEI TUOI SOGNI...



    Cristian mi dice, timido: “Domani ti chiamo io…”. Io gli sorrido contenta, esultando con un “ok!”. Mi si avvicina: è un po’ più alto di me, con i capelli neri, corti e ricci, terribilmente dolce e carino.
    Camminiamo per le vie del mio piccolo paese, alla periferia di Verona; gli metto un braccio intorno alla schiena, ma lui sembra non farci caso. A un tratto me lo ritrovo davanti, con gli occhi lucidi, pieni d’espressione che parlavano da sè: mi prende la testa tra le sue mani calde e davanti a casa mia mi bacia.
    “Ti amo, Anna…”.
    Chiudo gli occhi e sento di non poter più fare a meno di lui. Non avevo mai immaginato che quel ragazzo così timido che faceva l’asilo con me fosse capace all’età di 16 anni di essere così maledettamente… fantastico.
    Sembrava durare ore, forse giorni quella strana sensazione che non avevo mai provato; la sensazione di essere amata da qualcuno, di essere desiderata con tutta l’anima…

    Il telefono squillò per la terza volta quella mattina. “Ma che diamine! Nemmeno il primo dell’anno si può dormire in pace!” mentre mia madre si affrettava a rispondere. Alla fine della sua conversazione, mi alzai in fretta, staccai il telefono e me ne tornai a dormire. Poco più tardi fece capolino nella mia stanza mia madre: “Sono le nove e mezzaaaa!”, alzò la tapparella e si ritirò in cucina a preparare il latte.
    Nel tepore del mio letto pensavo a quello che avevo sognato: Cristian che mi baciava? Ma è… inaudito!! Lo dice persino Max Pezzali che “se sei amico di una donna non ci combinerai mai niente” con la sua “regola dell’amico”!
    Beh, perlomeno quella notte non avevo sognato ET che mi portava sul suo pianeta, o la guerra in Vietnam nella quale io ero la “Rambo” della situazione, con tre proiettili piantati nella gamba. Sì, ho fatto sogni peggiori, decisamente. Stiracchiai ogni muscolo del mio corpo, cercando di ricordare cosa avevo fatto poche ore prima. Ero andata alla festa di una mia amica con altri amici: avevo rincontrato Carlo dopo anni che non lo vedevo, avevamo giocato a “dubito”, flirtato con Andrea e… ah già, l’Artic alla mela verde!! Immensamente buono ed abbastanza forte per un’astemia come me.
    Decisi di mettere in moto i miei arti inferiori, balzando su due piedi giù dal letto. Mi avvicinai alla finestra e mi trovai curiosamente osservata dal mio gatto che, seduto sotto l’olivo in giardino, ruotava la testa a destra e a sinistra con un’aria curiosa. Mi limitai a fare dietrofront per andare in cucina. Il latte fumava sul tavolo: ci misi un’abbondante dose di Nesquik e un po’ di zucchero, mentre alla tv mi godevo uno speciale su Laura Pausini, l’indiscutibile regina del pop-rock, la colonna sonora della mia vita. Mentre facevo colazione, mi arrivarono una decina di sms di buon anno; era confortante sapere che almeno il 12% della mia rubrica mi aveva pensata proprio l’ultimo giorno dell’anno.

    Uscì per andare a fare la spesa con il mio solito e instancabile abbigliamento casual: jeans, t-shirt e felpa. Adriano, o lo zio Adry, era il proprietario del negozio di alimentari proprio dietro casa mia; lo chiamavo zio perchè ha sempre fatto parte della mia vita, molto più delle sorelle di mio padre! Dettagli.
    Fuori faceva freddino, solo 2 gradi! Corsi veloce in bottega e presi i fazzoletti tempo (per la mamma raffreddata), le fette biscottate e “i soliti 2 panini”, che lo zio si preoccupava di mettermi accuratamente da parte. Corsi a casa, mi barricai in camera mia prima che la mamma potesse rifilarmi altri compiti e accesi il pc. Speravo di trovare molte mail di auguri, ma tutto quel che trovai era la lettera della mia ex prof d’italiano del biennio alle superiori, la mitica prof.ssa Bernini. Lessi quelle poche righe piene dell’amicizia che c’era ormai tra noi e mi toccarono il cuore. Le risposi, e mentre attendevo che si caricasse la pagina aggiornata (chi non ha l’ADSL sa cosa significa “aspettare”!) mi sfuggì un’occhiata verso la finestra: nevicava. Fiocchi grossi quasi come ciliege scendevano dolci e fitti sul mio giardino, sulla strada e sul mio gatto nero ormai bianco, che sgambettava al riparo. Decisamente quella era una giornata diversa. Decisi allora di mandare un messaggio a Cristian dicendogli che stranamente l’avevo sognato, senza però svuotare il sacco sul come l’avevo sognato. Nelle due ore successive non ricevetti risposta e ormai si era fatto mezzogiorno. Mi scaldai in una teglia uno spiedino targato Aia, di quelli con tacchino, wurstel e salsiccia. Non ero una ragazza che si tirava indietro di fronte a queste leccornie solo per la linea, anzi: non c’era bontà a cui opponessi resistenza! Strano a dirsi, per una sedicenne di 47 chili per 160 cm, piccola e compatta.
    Dopo mangiato, mi distesi sul mio letto per leggere il libro di Lauren Weinstengen, “Il diavolo veste Prada”, semplicemente magnifico. Non riuscivo a leggere, continuavo ad avere dei flash sul mio sogno. Cristian. Io. Cristian. Driiing! Un nuovo sms! Chiusi gli occhi mentre pigiavo i tasti del telefono per leggere il messaggio. Gli aprii lentamente e scorsi il nome: Cri cel. Mi venne un tuffo al cuore, e un gran senso di colpa di avergli mandato quel messaggio; “cosa penserà ora?! Stupida che non sono altro!”. Lessi il messaggio. Decisi di dargli appuntamento il pomeriggio stesso sullo Stradon, il punto di ritrovo dei giovani Romagnanesi.

    Erano le 8:30 e come ad ogni appuntamento ero puntuale come il mio orologio svizzero. Lui non era ancora arrivato, perciò mi sedetti sul muretto del vialetto. Era già buio, si vedevano le luci della città che scintillavano a 20 km di distanza. L’unico lampione dello Stradon (“stradaccia”) era proiettato su di me, e questo mi faceva sentire terribilmente sola. Mi accesi una delle mie Marlboro Light e inspirai profondamente dalla sigaretta: ”Calmati, è tutto ok.”, anche se il vento era sempre più pungente.
    Erano già passati 30 minuti buoni e, si sà, per alcuni la puntualità è un optional. Pensai che avevo fatto una sciocchezza, in fondo era un semplice e misero sogno. Ma ecco che in fondo alla via apparve una sagoma; una figura ben definita, alta sull’1.72, capelli corti, con un giubbino della North Sails si materializzò di fronte a me. “Ciao! Come mai hai voluto vedermi?” mi chiese quel bendiddio di pezzo di ragazzo.
    “Cristian!! Ciao!! Ehm… sai, stanotte sei venuto a far visita nei miei sogni e, beh ecco, volevo raccontarti come sei, ehm… intervenuto!!… chiacchieriamo! Tutto qui!”.
    “Ah, già! Racconta! Che ho fatto?! Ero un personaggio famoso o qualcosa del genere??” mi rispose. Aveva gli occhi blu che scintillavano alla luce del lampione. Rimasi abbagliata dal suo chiarore.
    “Oh si appunto… no ecco vedi, hai fatto qualcosa di peggio…” rammentai con timidezza.
    “Ero forse un capomafia?? Un boss??”
    “Mi hai baciata sotto casa.” dissi, speranzosa in una sua buona reazione.
    Silenzio.
    Io scoppiai in una risata, lui impassibile.
    Ad un tratto mi guardò confuso. Eravamo amici dall’asilo: gli avevo insegnato ad allacciarsi le scarpe, l’avevo tirato dentro al gruppo, l’avevo spronato ad abbattere la sua timidezza e lui mi aveva insegnato cos’era veramente l’amicizia.
    “Scusa, devo tornare a casa” e si congedò.
    Rimasi allibita a quelle sue parole. Confesso che mi aspettavo una reazione diversa del tipo “Sono innamorato di te da sempre”, ma invece… invece ero un’idiota! Mi ritrovavo su una piccola via (ma la più grande del paese) seduta su un’umile muretto a fissare il vuoto, guardando i miei sogni sfuggirmi dalle mani. Ormai lui si era già allontanato, quelle parole erano bastate a farlo fuggire. Spensi la mia ultima sigaretta, guardai per l’ultima volta la città, il cielo luccicante e me ne tornai a casa.

    Nel bel mezzo della notte mi svegliai con il cuore che batteva a mille. Questa volta il sogno era più fantascientifico, vale a dire normale, secondo il mio standard. Feci per girarmi su un fianco quando il telefono prese a vibrare: chi poteva essere all’una di notte che cercava ME? Questa si che è fantascienza! Risposi.
    “Anna. Mi dispiace. Sono uno stronzo. Solo che… io… non sapevo come dirtelo… ma pure io ti ho sognata qualche settimana fa… io… non so… è perchè… io…”. Era Cristian con la sua “amica” timidezza. Era lui quel bambino che ho sempre conosciuto.
    “Sono sotto la tua finestra… puoi aprirmi?” chiese speranzoso, soprattutto perchè fuori c’era piuttosto freddo.
    Aprii la finestra, alzai la tapparella e lo sorpresi di fronte a me con il sorriso brillante, splendido, il telefono poggiato all’orecchio e le labbra rosse dal freddo.
    “Scusa… dormivi?”.
    “Non riuscivo…”.
    Stop.
    “Volevo dirti che… beh ecco…”.
    “Anch’io ti amo, Cristian…”. Si avvicinò, mi baciò delicatamente toccandomi leggermente il viso per non congelarmi le guance.
    Lo feci entrare prima in camera mia, poi nel mio letto…

     
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  5. *marica*
     
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    TI PERDO NEL DOLORE...



    Non posso aprire gli occhi. No, non posso. Non voglio. Non è possibile tornare alla realtà sapendo che non ci sei. Vorrei restare qui, nascosta nel caldo delle mie coperte e aspettare di morire.

    Sono passati mesi e ancora sto male. Ricordo quel pomeriggio autunnale. Ricordo la tua bellezza, quella bellezza che dal primo momento mi aveva turbata, sconvolta, egoisticamente rapita. Non eri una persona normale. No, tu eri l’immagine della bellezza, del desiderio inconfessabile, della natura nella sua complessità. Goccia di rugiada proibita, irragiungibile ed evanescente. Invece io ti raggiunsi. Contavo i minuti. Quei minuti che mi separavano dal poterti sfiorare per avere la sicurezza che non fossi un sogno, e che potevo accarezzarti davvero. Aspettavo ansiosamente il momento di vederti, di interagire col tuo sguardo ipnotico, perfetto, cercato dal mio primo istante di vita. Eri il perfetto incrocio tra un sogno soffuso e una realtà che poteva sfuggire da un momento all’altro. Una manciata d’acqua nella mano tenuta a cucchiaio, che cade, non sai da dove ma lentemente se ne va, tornando dove era stata raccolta, e dispersa tra il resto. Sai che non potrai mai riaverla come pochi istanti prima.

    Mi alzo e mi guardo allo specchio. Il mio viso è ancora giovane, temo il tempo ma cerco di non pensarci. Immagino come potrebbe essere la mia vecchiaia. La immagino con te, impalpabile ricordo dei giorni più belli della mia contorta esistenza. Mi risciaquo, getto la testa e comincio a pettinarmi fissandomi negli occhi riflessi nello specchio. Nella mia mente l’immagine di te che mi cammini accanto, sfuggente e io che tremo dentro per la paura di perderti in qualsiasi modo. Mi concentro sulla tua voce, come ho sempre fatto. Mentre mi parlavi pensavo a lei, e non a quello che dicevi. Annuivo a me stessa, non a quello che dicevi. Ti amavo. Amavo i tuoi movimenti, i tuoi gesti, le tue insicurezze e i tuoi dolci errori. Così come amavo il tuo corpo, il tuo visto, il tuo carattere incostante.

    Mi vesto, è un’azione semplice che si rivela difficile indossando quella maglia che portavo nel momento in cui la tua testa era appoggiata alla mia spalla. Le immagini prendono spazio nella mia testa. Con te ero viva, presente, reale. Ora sono solo una copia incompleta di me stessa. Ti sei preso la parte più importante di me e te la sei tenuta senza scrupoli. Ti adoro, sublime desiderio.
     
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  6. *marica*
     
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    LE LACRIME DELLA NOTTE...



    Non avrei mai immaginato di vagare di notte per la città. Angela, l’amore della mia vita, mi aveva scaricato. “Non posso amarti più” concluse il nostro rapporto con le lacrime agli occhi. Nel mio cuore si scatenò una tempesta incontenibile, e mi affidai alle risorse rimaste dentro per non barcollare. Non si possono ferire a bruciapelo i sentimenti, pensai. Un’atrocità che non dovrebbe nemmeno esistere. “Perché?” le chiesi, ritrovando un filo di voce. “Non chiedermelo, ti prego. Piuttosto sii sereno. Soffrirei ancora di più se tu non lo fossi” aggiunse senza ulteriori spiegazioni. “Possiamo chiamare un taxi, per favore?” “Si.” Lo chiamò lei. Un attimo dopo ero nell’ascensore e scendevo lentamente dal settimo piano. Ebbi la sensazione di essere sopra una nuvola che vagava nel cielo grigio, perché ero grigio dentro. Un ultimo sguardo verso la sua finestra illuminata e lei era lì, come un’ombra dietro i vetri. Mi salutò agitando la mano per l’ultima volta. Il taxi era oltre il cancello d’ingresso. Avevo gli occhi offuscati. “Ha chiamato lei?” sentii la voce del tassista che facevo fatica a vedere. “Ancona 43?” precisai meccanicamente. “Si.” Alla stazione centrale” indicai arrotolandomi in un angolo del sedile posteriore.Non pensavo a nulla. Avvertivo delle fitte al costato e non avevo tempo per pensare. Temevo il peggio. Perché soffrivo? Per una donna che non voleva amarmi più. L’amore, l’amore. Ti esalta, ti umilia, ti sublima, ti annienta. Che tipo di amore era stato il nostro mi domandai in un momento di luce. Non fui capace di darmi la risposta. Scesi dal taxi e raggiunsi il capolinea del 64. Appena l’autobus si mosse sbandai. Sembravo un fuscello in balia del vento. Portavo istintivamente le braccia al petto per frenare gli spasmi che mi sconquassavano la mente e cercavo un appiglio per reggermi. Mi dimenavo e sobbalzavo sulle ruote posteriori dell’autobus imboccando Via Cavour. Un uomo di colore mi osservava attentamente. Mi tese la mano, mi aiutò a sedere. La strada era lunga, dovevo raggiungere casa e superare la botta. Ero seduto in fondo all’autobus e non mi ero accorto che avevo anche pianto. Asciugai il viso, dopo respirai profondamente e trattenni il respiro come mi aveva suggerito il medico di famiglia. Egli era a 400 chilometri di distanza, io potevo solo mettere in pratica le sue raccomandazioni. Il turbinio della mia psiche mi concesse una tregua, mi guardai attorno e convenni che ero ancora in questo mondo, circondato, anche se pochi, da esseri meravigliosi. “Anche lei piange?” mi fece notare una ragazza seduta sulla mia sinistra. “Forse” le risposi “Allora siamo in due, questa sera” aggiunse. Il suo volto era inondato di lacrime. Neanche la pioggia lo avrebbe conciato così. I suoi occhi mostruosamente devastati dal rimmel. Sembravano due buchi di una tana mostruosa. Era molto giovane, aveva il diritto di piangere. Io, forse no, che avevo superato trent’anni. “Perché piange?” le chiesi. “Così” rispose scuotendo il capo. “Mi scusi, non avrei dovuto chiederlo.” “Lei perché piange?” rintuzzò. “Ho scoperto che anche il grande amore è una fregatura. Chi ci crede soffre e non può fare altro che piangere” le svelai. La ragazza mi fissò e smise di piangere. Rovistò nella borsetta e tirò fuori dei fazzolettini di carta. “Le avrei asciugate io quelle lacrime. Alla sua età si deve gioire” accennai con un sorriso. “L’avrebbe fatto sul serio?” si sorprese. “Certamente. Potrei essere il suo angelo custode.” “E’ sposato?” “Stavo correndo questo rischio. E’ finito tutto.” “La sua ragazza l’ha lasciata?” “ Si.” “Non la meritava.” “Può dirmi perché piangeva?” “Ho litigato con il mio ragazzo.” “Merita le sue lacrime?” “Non lo so.” “Gli vuole bene?” “Si.” “Allora un rimedio c’è sempre.” “Non credo.” “Perché?” “L’ho sorpreso con una nuova ragazza.” “E’ bella come lei?” “No.” “Non deve arrendersi.” “Non c’è speranza.” “Non sii pessimista. Intanto torni a casa, domani sarà un altro giorno.” “Non torno a casa.” “Dove intende andare?” “Da qualche parte.” “Non è una risposta.” “Dove vanno le persone deluse.” “Non conosco quel posto. Io pure sono deluso, ma torno a casa. Non mi aspetta nessuno. Sarà dura trascorrere la notte, ma sopravvivrò.” “Un angolo nascosto qualunque, dove ci si buca in pace. La notte sarà splendida, ci saranno altri amici.” “Perché lo fa?” “Per lui, per il mio ragazzo. Gliel’ho detto!” “E se telefonassimo a casa annunciando che sta rientrando per non farli preoccupare?” “Telefonare a casa! Di me non si fila nessuno. Mio padre è andato via di casa dieci anni fa, mia madre ha le sue amicizie. Io avevo un ragazzo, ora non ce l’ho più.” “Chi le procura la roba?” “Il mio ragazzo.” “Io non l’avrei fatto.” “Perché?” “Per amore… per non vederla piangere.” “Non si è mai bucato in vita sua?” “No.” Al capolinea scendemmo e sedemmo sulle scale di una chiesa. La porta piccola era aperta e nell’interno c’era una pace straordinaria. “Che facciamo?” chiese lei. “Io una prospettiva ce l’ho.” “Quale?” “Pregare, ringraziare Dio per la vita che ci ha dato e uscire da qui con l’impegno di rispettarla.” “Non mi lasci sola, la prego!” implorò. “Perché dovrei? Io e lei abbiamo un dannato bisogno di essere solidali, però dobbiamo smettere di piangere e guardare avanti con speranza.”
     
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  7. *marica*
     
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    UN MOTIVO PER RESTARE....




    L’auto sfrecciava veloce sull’autostrada, non curante dei limiti di velocità e delle condizioni rischiose del manto stradale, reso particolarmente pericoloso dalla pioggia battente che ormai cadeva incessante da due giorni. Dalla radio uscivano le note armoniose e struggenti di Don’t Speak. Ascoltandole Kate, sentiva crescere ancor più dentro di sè il dolore e la rabbia per una vita ingiusta, per un destino che le si era accanito contro. Per una sorte che non meritava. I tergicristalli si muovevano all’impazzata senza però riuscire ad assicurare una visibilità ottimale. Ma non importava, le sue lacrime scendevano copiose e, anche se ci fosse stato il sole, non avrebbe visto molto e non avrebbe comunque potuto evitare ciò che di li a poco sarebbe accaduto. La pioggia aumentò di intensità, ormai non si vedeva a un palmo dal naso. Attraverso le gocce scroscianti Kate scorse un cartello che segnalava un’area di sosta d’emergenza, lo fissò per qualche istante, affiancandolo, ma alla fine proseguì. Che cosa diavolo stava facendo? Correva come una pazza sulla sua vecchia auto rischiando di uscire fuori strada ad ogni curva. A un tratto si rese conto che non le importava nulla. Niente aveva più senso, desiderava solo non pensare più a niente, immergersi nel silenzio, trovare la pace. Poco dopo l’imbocco del cavalcavia la macchina cominciò a sbandare. Kate cercò invano di riprenderne il controllo. Velocemente invase la corsia opposta, da cui però non sopraggiungeva nessuno. Diede un rapido giro al volante, troppo rapido perché la macchina potesse raddrizzarsi. Cominciò un vorticoso testa coda. La macchina girò su se stessa più e più volte. Ormai era ingovernabile. L’inevitabile a un tratto si era materializzato su quel cavalcavia. Al termine dei suoi numerosi giri la macchina incontrò il guardrail. Ci si scagliò contro con una violenza tale da renderne vano il tentativo di bloccarne la corsa. Le barriere si ruppero e volò giù verso il dirupo. Kate, semi incosciente con le mani aggrappate allo sterzo, realizzò cosa stava accadendo. In un attimo tutto le passo davanti: L’amore della sua vita strappatole via con violenza, la perdita del suo bambino, il dolore cieco, la disperazione. Tutto stava per finire, tutto sarebbe cessato. Non c’era più motivo di continuare a vivere, non era riuscita a trovarne uno. L’impatto col guardrail mandò in frantumi i finestrini, poi sotto di sè, vide il vuoto. Fu invasa all’improvviso dal terrore. Era quello che voleva veramente? Morire? Forse no. “Lizz perdonami” Fu il suo ultimo pensiero. Lo schianto a terra fu tremendo, la macchina esplose e istantaneamente fu avvolta dalle fiamme.



    Lunedì 7.00 am
    La sveglia cominciò a suonare, Kate, già sveglia da ore ormai, allungò la mano per spegnerla. Erano 2 settimane ormai che dormiva a malapena qualche ora a notte. Il dolore per la perdita di Nick, del Nick, l’aveva invasa come un fiume in piena che travolge una piccola zattera. Era l’amore della sua vita, il suo amico, il suo complice, il suo amante, il suo marito devoto. Dopo 2 anni di tentativi andati a vuoto finalmente lei era riuscita a rimanere incinta. Di comune accordo avevano deciso che non avrebbero voluto sapere il sesso del nascituro. Non aveva importanza. Lo avevano talmente desiderato che, qualunque fosse stato il sesso, lo avrebbero amato infinitamente.

    Una mattina il telefono squillò, rispose Nick.
    “Certo” disse, “tempo di preparare la borsa e arrivo. Sarò alla base al massimo tra 20 minuti”
    Nick era un pilota dell’aviazione. Amava stare a centinaia di piedi sopra la terra ferma. Gli dava un senso di enorme libertà. Per lui il suo non era un lavoro, volare era un’occasione per stare in pace con se stesso, per staccare la spina dalla routine quotidiana.
    “Chi era al telefono?“ chiese Kate, già pronta a mettere su il broncio. Quella mattina, Nick le aveva promesso che l’avrebbe accompagnata al centro commerciale a fare spese. Era al terzo mese di gravidanza, e cominciava ad aver bisogno di qualche indumento più comodo da indossare.
    “Chiamavano dalla base tesoro. Al si è messo in malattia oggi, e lo devo sostituire. Ma non ti preoccupare, sarò qui per il primo pomeriggio. Faccio un volo veloce veloce e poi ti porto a dilapidare la carta di credito, ok?”
    Le strinse il viso tra le mani, e la baciò dolcemente. Infilò la giacca e uscì. Kate lo accompagnò alla porta.
    “Si però poi mi porti anche fuori a cena“ gli gridò, mentre lui già avviava il motore dell’auto.
    La guardò e le sorrise.
    “Va bene tesoro, tutto quello che vuoi“, poi con un gesto della mano la salutò e svoltò l’angolo.
    Tutto quello che vuoi, era la frase che le diceva ogni volta che si sentiva in colpa. Quando sapeva di averla delusa per un motivo o per un altro.
    Fu l’ultima volta che vide il suo sorriso, l’ultima volta che sentì quella frase.
    Poche ore dopo il telefono squillò di nuovo. Kate rispose pensando fosse Nick. Era già pronta a urlargli dietro per il suo ritardo clamoroso. Ormai era tardi per andare al centro commerciale, doveva inventarsi qualcosa di veramente colossale per non finire a dormire sul divano quella notte.
    Sollevò la cornetta, ma con sua grande sorpresa non riconobbe la voce di Nick dall’altra parte del ricevitore.
    “Signora Gordon? Sono il primo ufficiale Spencer“
    Quando riagganciò le gambe le cedettero e crollò a terra. Nick, il suo Nick, non sarebbe più tornato a casa. C’era stato un problema al motore durante il volo. L’aereo era precipitato, senza che Nick riuscisse a catapultarsi fuori dal veivolo. Al telefono il primo ufficiale Spencer le disse che avevano appena rinvenuto il corpo senza vita di suo marito, e che lo stavano trasportando all’ospedale militare di Zona.


    Erano passate passate 2 settimane da quel giorno. Dopo il funerale Kate aveva interrotto quasi ogni contatto con l’esterno. Zero lavoro, zero parenti, solo qualche intimo amico, che ogni giorno a turno passava a casa sua per sincerarsi che avesse mangiato qualcosa e per asciugarle ancora quelle lacrime che sembravano non finire mai.
    La sera prima si era fatta convincere da Lizz, la sua migliore amica, a tornare a lavoro. Essere impegnata otto ore al giorno l’avrebbe aiutata a riprendersi più velocemente.
    Scese dal letto lentamente trascinandosi verso la doccia. Regolò il miscelatore in modo che l’acqua scendesse bollente su di sè. Si sedette sul piatto della doccia e pianse ancora. Prima di uscire fece colazione con fette biscottate e nutella. Aveva bisogno di sostanza per il suo bimbo. Si toccò il ventre per cercare di sentire quell’esserino che viveva e cresceva dentro di lei. Come avrebbe fatto da sola a crescerlo? Uscì di casa e arrivò a lavoro in tempo per bollare la cartolina. All’ingresso del suo ufficio Lizz l’aspettava col sorriso. Oltre che la sua migliore amica, era anche il suo capo redattore.
    “Sapevo che non mi avresti delusa, ho fatto spolverare la tua scrivania e ho detto ai ragni e alle colonie di batteri che si erano insediate di sloggiare e di trovarsi un’altra dimora”.
    Kate accennò un sorriso.
    “Mi hai tolto tutte le scuse per mettermi in malattia eh? Ma io sono più furba di te sai?”
    Risero entrambe, e Lizz sentì cominciare a sciogliersi la tensione accumulata quella mattina. Temeva fosse troppo presto per Kate. Il lavoro, la gente, le stupide frasi di circostanza che i colleghi idioti avrebbero potuto rivolgerle. Era sempre stata molto protettiva nei suoi confronti. Forse perché più grande, forse perchè la prima di 5 figli. Era da sempre abituata a prendersi cura delle persone a lei più care. E Kate rientrava tra queste. L’ora del pranzo arrivò in fretta.
    “Ti spiace se prima di andare passiamo un attimo alla toilette? Ho bisogno di rifarmi il trucco“
    Lizz era molto attenta al suo aspetto. Sia per la posizione ricoperta all’interno dell’ufficio sia per una sua naturale propensione alla vanità.
    “Te lo stavo per chiedere io. Da quando sono incinta passo più tempo al bagno che altrove” disse Kate con ironia.
    “Hai ancora tanta nausea?”
    “No per fortuna quella è passata”
    Entrarono assieme e Lizz si diresse subito verso il grande specchio dell’antibagno. C’era una luce spettacolare li, perfetta per rifarsi il trucco. Ad un tratto senti un tonfo.
    “Kate, tutto bene?” Ma Kate non rispose. “Kate” ripetè, avvicinandosi alla porta del bagno in cui era entrata l’amica. ”Kate, sei qui dentro?”
    Una flebile voce le rispose dall’altra parte della porta.
    “C’è qualcosa che non va, non riesc…”
    “Kate, parlami dì qualcosa”
    “Aiutami, cerca aiuto”
    Da sotto la porta Lizz vide che del sangue cominciava a scorrere tra le fughe del pavimento.
    “Oh mio Dio” Aprì la porta, per terra, Kate, era in un lago di sangue. La testa china verso il ventre e la mano stretta sulla pancia.
    “Il mio bambino, cosa sta succedendo Lizz? Cerca aiuto”
    Venne chiamata subito un’ambulanza che attraversò la città a sirene spiegate.
    Lizz stringeva forte la mano della sua amica. “Te la caverai vedrai, te la caverai” Poi Kate
    Svenne. Quando riaprì gli occhi Lizz era ancora accanto a lei e ancora le stringeva la mano.
    “Ciao bambolina, come ti senti?”
    “Come se mi fosse passato addosso un camion”
    Entrò il medico che si avvicinò al suo letto, poi si rivolse a Lizz “Glielo ha detto?”
    “No, non ancora dottore, si è appena svegliata” rispose.
    Kate capì che c’era qualcosa che non andava, poi ricordò le ore appena passate. Il bagno, il sangue, l’ambulanza… il sangue. Guardò il medicò con gli occhi spalancati e capì. Capì di avere avuto un aborto. Capì che lei era sopravvissuta e il suo bambino no. L’ultima cosa che la legava ancora saldamente a Nick, anche quella se n’era andata all’improvviso. Ora era rimasta sola.
    Era tardi quando uscì dall’ospedale e nonostante Lizz avesse insistito per farle compagnia quella notte, lei rifiutò. Aveva bisogno di stare da sola, di vivere il suo dolore. Appena entrata a casa salì in camera e si buttò sul letto per piangere ancora fino ad addormentarsi stanca e sfinita da quella giornata così assurda, così inaspettata. Si svegliò nel cuore della notte in preda a terribili incubi. Aveva sognato Nick che le veniva incontro dal fondo della strada, tenendo tra le braccia il loro bambino. Poi all’improvviso vide che il bambino che stringeva era nudo e sporco di sangue. Gridò talmente forte da svegliarsi. Scese al piano di sotto, si preparò un tè e comincio a guardare fuori dalla finestra. Guardava la pioggia cadere. Sulla strada si erano formati dei rigagnoli resi particolarmente abbondanti dalla quantità di pioggia che scendeva in quel momento. Portavano con sé foglie, pezzetti di plastica e quant’altro potessero trovare nel loro cammino. Guardandoli Kate si domandò se la pioggia avrebbe potuto trascinare via anche il suo dolore. Tutto a un tratto si alzò, indossò il suo cappotto e prendendo le chiavi dell’auto uscì di casa. Non sapeva dove andare, voleva solo attraversare la pioggia.


    Mentre si girava e rigirava nel letto il telefono di Lizz squillò. Era la protezione civile, la macchina della sua amica Kate era stata rinvenuta ai piedi di un dirupo. Il suo cellulare era stato sbalzato fuori dall’abitacolo e trovato nei paraggi con in memoria il suo numero come ultima chiamata.
    Si precipitò sulla sua auto continuando a maledirsi per non essere rimasta accanto alla sua amica, per non aver capito che non avrebbe potuto reggere da sola a tutto questo. Arrivò velocemente sul luogo dell’incidente, nel frattempo aveva smesso di piovere. C’erano i vigili del fuoco, la protezione civile, una pattuglia della polizia e un’ambulanza, ma era vuota. Corse verso un’uomo che apparentemente sembrava il capo dei vigili del fuoco.
    “Mi scusi, mi chiamo Elisabeth O’Brian, mi avete chiamato per avvisarmi dell’incidente della mia amica, dov’è? E’ ferita?”
    Il capo dei vigili del fuoco la guardò con aria seria e drammatica. “Signora O’Brian, il corpo della sua amica non è stato ritrovato, presumiamo che sia rimasta all’interno dell’auto durante la caduta dal cavalcavia”.
    Caduta? Cavalcavia? Lizz guardava l’uomo con aria interrogativa. Con una mano lui le fece cenno di guardare in alto, sopra le loro teste. E li lei vide il guardrail sfondato, pezzi di auto un po’ ovunque e l’auto che ancora bruciava.
    “I miei uomini spegneranno tra breve le fiamme e…”
    Non poteva essere vero, la sua amica, era morta. E lei non aveva fatto nulla per impedirlo. Le scoppiava la testa. Come aveva potuto permetterlo?
    Poi qualcuno cominciò a gridare. “Ehi venite, c’è qualcosa qui. E’ ancora viva”
    Freddo, sentiva freddo e c’erano dei suoni, delle voci. Aveva in bocca il sapore della terra misto al sangue. Non riusciva a capire. Cosa stava succedendo? Tentò di muovere la testa ma un dolore lancinante bloccò il suo tentativo sul nascere. Poi all’improvviso sulla sua fronte, del calore e una voce ancor più calda. Aprì gli occhi e riconobbe a stento la figura di Lizz.
    “Hai fatto un bel volo bambolina, fortuna che il tuo stramaledetto vizio di non mettere la cintura ti ha permesso di volare fuori dalla macchina prima che tu ti schiantassi assieme a lei”
    Aveva male ovunque. Pensò che se sentiva tanto dolore forse era un bene, voleva dire che non aveva perso la sensibilità in nessuna parte del corpo. Guardò l’amica intensamente negli occhi. Non era sola, non lo era mai stata nemmeno per un istante. Lizz era sempre stata accanto a lei. Kate sorrise, ora aveva trovato il suo Motivo.
    “Lizz” le disse con l’aria di una bambina piccola che si è appena messa nei guai “Lizz, ho combinato un casino”
    Lizz la guardò con aria serena e con il sorriso “Te la caverai bambolina, te la caverai”.

     
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  8. *marica*
     
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    NEL GIORNO DEL MIO COMPLEANNO...


    Il mio compleanno è sempre un giorno solitario. Perché?
    Perché sono nata ad agosto mese di vacanze, perché ad agosto quasi sempre lavoro e i miei amici invece sono al mare, perché il mio lavoro è guidare gli autobus a Roma. Non ci crederete ma malgrado lo stress e la fatica che guidare un autobus comporta, specialmente in una città caotica come Roma, io il mio lavoro lo adoro. Per una come me, sempre attenta e curiosa a ciò che succede nel mondo, ascoltare e vedere la gente che quotidianamente prende l’autobus è fonte di irrefrenabili fantasie. Quando guardo il viso e le espressioni di chi sale sul mio autobus penso allo loro vita, al loro lavoro, dove vanno, cosa fanno, chi sono.
    Quel giorno, esattamente il 16 di agosto, stavo ultimando il mio turno di guida sulla linea 81. Erano più o meno le sei del pomeriggio quando all’altezza del Colosseo sale in vettura un uomo sulla quarantina. Alto, brizzolato con due occhiali scuri che incorniciano un bel volto abbronzato. Sull’autobus c’è solo una vecchietta che ha già prenotato per scendere alla prossima fermata, ed un sedicenne con le cuffiette attaccate ad un sony che ondeggia a tempo di musica. Il tipo mi si avvicina e mi chiede con una voce calda e con un marcato accento americano: “Scusi signorina per andare in Campidoglio dove devo scendere?” Mi giro un attimo, il tempo di guardarlo in faccia invece che dallo specchietto retrovisore. Un profumo sensuale mi inebria le narici. “Cavolo” penso “e questo che ci fa il 16 agosto tutto solo su un autobus a Roma?” “Prego?” rispondo “Mi scusi non ho capito” “che bugiarda” penso. “Dovrei andare in Campidoglio può avvertirmi quando scendere?” “Certo” rispondo “con molto piacere” e mi stampo un bel sorriso sulle labbra. “Questo sicuro è un play boy in libera uscita in cerca di turiste” penso tra me e me “magari è un gigolò, no no non può essere, è troppo elegante per una semplice uscita di acchiappo. Potrebbe essere un invitato ad un matrimonio in Comune, gli si è rotta la macchina ed ha dovuto prendere l’autobus per arrivarci. No, dal tipo avrebbe preso un taxi, forse è l’ex della sposa che vuole vedere per l’ultima volta la sua amata ma che fa di tutto per arrivare in ritardo e non vederla sposata.” “Le piace guidare?” mi chiede l’americano “Come?” rispondo riprendendomi dalle mie fantasie “Le piace guidare? E’ un mestiere insolito per una ragazza. Di solito, se lo fa una donna, è perché lo ha scelto” mi guarda da dietro le lenti scure ma sento ugualmente che mi sta fissando impudico sorridendo innocentemente. “Si” rispondo “Mi piace e si, è stata una scelta, ma non lo ritengo un mestiere insolito” “bhè per una bella ragazza forse si, o meglio tutte quelle che io conosco, quelle carine intendo, pensano sempre a mestieri in cui possano mettersi in mostra”. Lo guardo di traverso. Devo avere un’espressione acidula perché lui si ritrae dalla transenna a cui si era appoggiato e guarda vago fuori. Da lì posso ammirare il suo profilo greco, la linea di congiunzione tra il naso e la bocca è perfetta. “Ma guarda questo” penso infastidita “cos’è giornata di magra che vieni a rompere proprio a me!” poi sospiro silenziosa “ammazza se sei carino!”. “Non siamo tutti uguali vivadio” rispondo “è solo questione di sapere ciò che si vuole dalla vita” “Vorrei dargli un bel pugno su quel viso beffardo e sorridente, ma subito dopo gli darei un bel bacio per consolarlo” “guardi alla prossima scenda che è arrivato” “oh grazie mille e… mi scusi se le sono sembrato impudente non volevo, il mio italiano zoppica un po’ e a volte ciò che penso non coincide con ciò che dico. Comunque piacere di averla conosciuta e… perchè non viene stasera in Campidoglio c’è una bella festa e potrei farla passare” “ma cosa dice” gli rispondo “io neanche la conosco..” “E’ vero mi scusi mi chiamo George, George Clooney e lei?” “Io?” lo guardo imbambolata, lui si è tolto gli occhiali e mi guarda divertito con quel sorrisetto da seducente mascalzone che tante volte ho adorato al cinema. Fermo L’autobus come un automa apro le porte per farlo scendere “Allora come si chiama?” “Io?” ripeto – “svegliati” - mi rimprovero da sola – “parla dì qualcosa” – “mi chiamo Anna e..” qualcuno suona il clacson dietro di me. Guardo il malcapitato con odio feroce e faccio cenno di aspettare – “Ok se viene mi fa piacere” taglia corto lui scendendo frettolosamente “Ciao Anna lascio il tuo nome al mio staff per farti entrare. Ciao e buona giornata”. Si allontana verso le scalinate di Ara Coeli e io lo guardo imbambolata. “Oh allora?” la voce del sedicenne alle mie spalle mi sveglia dalla trance “ Ch’hai deciso de fà? Volemo rimanè qua ad aspettà er tramonto?”. Chiudo le porte della vettura inserisco la prima e sorridendo penso alla magnifica serata che mi aspetta. Io fasciata in un vestito scollatissimo che balla abbracciata a George Clooney in un tango appassionato. Fisso il semaforo rosso e scoppio in una risata pensando “e chi ci crede?” poi guardandomi dallo specchietto ad alta voce mi dico “Buon compleanno mia cara Anna”.

     
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  9. *marica*
     
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    La lettera d’amore...



    Tornato a casa, dopo quella lunga giornata trascorsa in ufficio tra impegni e difficoltà da risolvere, Francesco si sentì di colpo tranquillo, perché era finalmente libero di pensare solo a se stesso e depositare in un’altra parte del suo cervello ogni preoccupazione.
    Aveva deciso.
    Pensò a Chiara e nel pensiero di lei si sentì invadere da un senso di profondo benessere.
    Avvertì che le idee gli si sgranavano in testa come grani di un rosario di cui chi è abituato a pregare riconosce ritmo e senso.
    Si fece una doccia, accese il computer e prima di prepararsi la cena solitaria, prima di chiamarla come ogni sera a telefono, decise di scriverle una lettera, perchè intendeva fermare le idee in modo che ogni parola avesse il suo significato.
    Desiderava convincerla.
    Sapeva di poterlo fare.
    Le dita correvano sulla tastiera.
    Non intendeva lasciare spazio a dubbi.
    Non avrebbe accettato più di sentirsi dire che era meglio attendere, che qualcosa ancora doveva essere chiarito.
    Si fissò una scaletta, ingenuamente timoroso di dimenticare qualcosa e poi, rileggendola, sorrise tra sé.

    - Dodici rose rosse
    - Lettera per dirle che:

    1) la amo
    2) non posso vivere senza di lei
    3) sono stanco della storia che vivere da soli è una scelta di civiltà
    4) le altre cose mi verranno in mente mentre scrivo

    - Prenotare una vacanza (al mare, luogo bello, semplice e solitario)

    - Mettere le ali al cuore

    - Linguaggio semplice

    - NON ESSERE STUPIDO, SII SINCERO, CONSIDERALA L’ULTIMA SPIAGGIA!

    Rilesse più volte ciò che si era appuntato sul foglio Word.
    Fermò lo sguardo a lungo sull’ultima frase, aprì la pagina di posta, cliccò su “Scrivi un messaggio” e cominciò:

    Chiara, amore mio,
    come stai?
    Qui nevica e fa freddo.
    Sono finalmente a casa dopo una giornata da dimenticare.
    Oggi in ufficio sembrava che nulla funzionasse a dovere. Ho perso la pazienza con tutti, soprattutto con Rita, la mia segretaria, che ha sopportato che sfogassi con lei il mio malumore. Credo che si sia più volte rifugiata in bagno per farmi di nascosto boccacce che sono certo di essermi meritato.
    Oggi tutto è andato storto: il tempo, il traffico, la multa per divieto di sosta, il caffè troppo bollente, l’appuntamento decisivo con un cliente importante che si è concluso senza la firma del contratto dopo una trattativa snervante che mi aveva impegnato per giorni.
    Un’arrabbiatura via l’altra e poi, finalmente, questa giornata di contrattempi continui è finita e sono tornato a casa.
    Mi sono fatto una doccia calda che si è portata via tutto il fastidio e la stanchezza, ho indossato il pigiama e quella giacca da camera verde che mi hai regalato per Natale accompagnata dal biglietto che ancora conservo: “Ricordati di me…”
    E io mi ricordo ogni momento di te e mi pare di averti tra le braccia quando l’indosso.
    Ti scrivo, perché mi manchi.
    Ti amo.
    Non desidero che tu abbia alcun dubbio.
    Te lo riscrivo: ti amo e mi manchi. Sempre.
    Non sopporto di vederti di corsa, solo quando siamo liberi dai nostri impegni di lavoro.
    Non è vita.
    Non possiamo andare avanti così.
    Non tergiversare ancora.
    Voglio vivere con te.
    Voglio starti a fianco e voglio averti al mio fianco.
    Ti penso sempre.
    Penso a quando ti ho vicina e mi perdo nei tuoi occhi verdi, nei tuoi capelli biondi e lisci, sulla tua pelle bianca. Penso al tuo seno sodo e a quel tuo modo di dormire sul fianco raggomitolata contro di me.
    Penso a come pensi, a come riesci rapida a leggermi le idee, quasi nello stesso momento in cui mi nascono nella mente. Tu sorridi quando ti chiamo strega, ma è vero, ti ammiro per il tuo modo di essere e mi sento ammaliato.
    Stiamo bene insieme, lo sai. Non capisco cosa ti trattenga ancora dal deciderti ad una vita con me.
    Ti prometto.
    Non precipiteremo nella noia, non ci perderemo nella quotidianità, non vedremo morire il nostro amore nei luoghi comuni della vita di ogni giorno.
    Anzi, sarà bello ritrovarci, ogni mattina, ogni sera, ogni momento che vorremo, che vorrai… che vorrei…
    Sono stanco di questo continuo rincorrerti.
    Scegli di vivere i nostri giorni per sempre insieme, finché ci sarà dato, perché non ci sarà fine.
    Che altro dirti, amore mio… fai con me questo salto nel buio, credi con me che è possibile amarci per sempre.
    Non fermarti davanti al dubbio, non farti spaventare dalle esperienze negative di chi ha avuto sfortuna, di chi non ha saputo custodire l’amore e conservarne il rispetto.
    Non pensare alla vita coniugale come ad un limite.
    Vuoi essere sicura…
    Ma non esistono certezze, non vi sono garanzie, non c’è rodaggio che assicuri riuscita.
    Amarsi è volersi ogni giorno.
    E’ un atto di coraggio, non è una partita a scacchi, non è una pianificazione.
    Non avere paura.
    Vivi con me, stai con me e permettimi, permettiti, di pensare a noi come ad un tutt’uno di cui ognuno di noi è parte e contemporaneamente insieme.
    Rispondimi che anche per te il sentimento che ci lega non è una scelta del caso.
    Progetta con me la nostra vita futura.
    Sposami.
    Ti amo.
    Rispondimi.
    F.

    Francesco rilesse ciò che aveva scritto.
    Sentì che aveva messo a nudo il suo cuore.
    Era sicuro di non aver sbagliato le parole.
    Cliccò su “Invia” e si preparò all’attesa.
    Sperava.

     
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  10. *marica*
     
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    La Storia di Babbo Natale



    Tanto, ma tanto tempo fa, mi chiamavo Nicola e vivevo a Patara, in Turchia. Fin da bambino mi piaceva vedere le persone contente. La mia grande passione era fare regali, soprattutto a chi aveva tanti bei desideri. Ero nato in una famiglia molto ricca, ma presto rimasi orfano e regalai ai poveri tutto quello che avevo. Per tutta la vita mi dedicai al mio hobby preferito: aiutare le persone ad essere felici. Quando morii mi trovai dinanzi alla grande e maestosa porta del paradiso. -salve nicola- mi disse gesu' sorridendo. -benvenuto in paradiso! Abbiamo pronta per te una sorpresa davvero speciale. Poiche' in vita fosti tanto generoso e buono, ti abbiamo eletto all'unanimita' babbo natale. Abiterai in un palazzo di cristallo, tra il cielo e la terra, non lontano dal polo nord. Lì, ti occuperai del lavoro degli gnomi, degli elfi e delle fate, che fabbricano regali per i bambini di tutto il mondo. Il tuo vestito e' rosso come l'amore, e bianco come i pensieri dei bambini. Adesso indossalo e.... Buon lavoro Babbo Natale-. Da allora eccomi qua. Passo tutto l'anno a leggere le letterine dei bambini e mi diverto tanto.
    Mi raccontano quello che li rende tristi o felici, i loro desideri, le loro paure e i loro sogni. Mi vogliono un gran bene e sperano sempre di vedermi scendere la notte di natale con la slitta dalla cappa del camino o dal tubo della caldaia. Ma io cerco di non farmi vedere, perche' altrimenti che sorpresa e'? Arrivo quatto quatto, mi faccio piccino per entrare nelle case con il mio sacco. Poi sistemo i doni sotto l'albero di natale, mi guardo intorno, cerco di capire dove dormono i bambini e, se riesco a trovare la loro cameretta, mi affaccio per un salutino, un bacino e una carezza. Infine me ne vado sulla slitta lasciando dietro di me polvere dorata di stelle.

     
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39 replies since 19/10/2005, 16:27   817 views
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